La tartaruga rossa

 

 

Un uomo naufraga su un’isola deserta. Sulle prime cerca di fuggire, ma c’è un animale a impedirgli di prendere il largo: una tartaruga rossa. Una parte di lui forse capisce perché lo fa.

Veterano classe 1953, l’olandese Michael Dudok de Wit vinse meritatamente nel 2001 l’Oscar per il miglior cortometraggio animato, con lo straziante Father and Daughter, che a sua insaputa stava suscitando l’ammirazione del celeberrimo Studio Ghibli, nella persona del maestro Isao Takahata. Il passaggio dalla forma del cortometraggio a quella del lungo non poteva avvenire con padrino migliore: Takahata si è fatto mentore di questa produzione europea, che De Wit ha diretto da solo, con animazioni (al 90% a mano libera) dello studio Prima Linea.

All’incirca il primo terzo di La tartaruga rossa sarebbe da incorniciare, da collolocare nella storia dell’animazione: la stentata sopravvivenza del protagonista, il suo subire la natura e i rumori che manifesta (superbo il sound design), il suo scontrarsi metafisico con la tartaruga rossa emozionano come raramente accade, non solo nell’ambito dell’animazione, ma dell’arte cinematografica in generale. Il film è interamente privo di dialoghi, narrato solo con le immagini e col suono, e questa parte introduttiva riesce ad andare oltre la ricerca più classica dell’emozione di molti cortometraggi, inclusi quelli del regista. Colpisce nel segno il modo in cui gli ambienti, nella stilizzazione pittorica memore della tradizione giapponese, riescano a trasmettere una sensazione di realismo pari se non superiore a quella di un documentario: stesso discorso vale per i personaggi, concretissimi pure in uno stile gentile dalinea chiara alla Hergé. La tartaruga rossa parte come un’esperienza vera.

Ma non prosegue alla stessa maniera. Un evento di natura spudoratamente magica trasforma l’esperienza sensoriale in una fiaba più didascalica di quel che ci si aspetterebbe da un inizio così folgorante. Non sarà per tutti un difetto, perché De Wit mantiene saldo il timone del significato: la necessità di un’unione con la natura eterna come la tartaruga, che non capisce perché pensiamo dipoterne fare a meno. Era però un significato che all’inizio del film era veicolato da un cinema che ci metteva sul serio a contatto con l’aria, l’acqua, la luce, la morte. Una fiaba, per quanto elegante e preziosa, porta invece più il marchio dell’essere umano, della sua necessità di interpretare, di dare significato a quello che invece semplicemente è, di creare metafore e allegorie, ed è quindi meno dirompente. A riprova, l’enfasi sugli effetti sonori cede via via il passo a un commento musicale molto più prevedibile.

La tartaruga rossa avrà di certo uno stuolo di sperticati ammiratori, e non potremmo dare loro torto: solo viene spontaneo cercare il pelo nell’uovo quando ci si para davanti un talento creativo come quello di De Wit, che dovrebbe comunque intercettare l’interesse di tutti gli amanti del buon cinema.