Con Dobromir Dymecki, Agnieszka Zulewska, Jean-Marc Barr, Alma Jodorowski, Marcello Romolo.
Titolo originale SILENT LAND. DRAMMATICO (colore). Durata 113 min. Polonia, Italia, Repubblica ceca 2021 (I Wonder Pictures)
Anna e Adam sono una coppia polacca che sceglie per le vacanze una bella villa su un’isola in Italia. Sportivi e sofisticati, si godono le cene e le corse nella natura, isolandosi in un relax un po’ robotico. Si lamentano però con il padrone di casa per la piscina che non funziona. Quando arriva un giovane operaio a ripararla, un incidente sconvolge la calma apparente del luogo e minaccia di rovinare il soggiorno dei due protagonisti.
È un film di distanze, l’esordio alla regia della polacca Aga Woszczynska. Distanze culturali come distanze di sguardi, che si fanno spesso gelide, si prolungano al limite dell’insostenibile, separano i luoghi dai corpi.
La storia ha un retrogusto malsano e mette sotto esame l’entitlement borghese più contemporaneo, di chi si arrocca nel proprio piccolo agio per ignorare la sofferenza altrui. Il teatro è una villa in cui qualcosa sembra mancare fin dal principio, e dove non c’è nemmeno l’edonismo sciagurato dei protagonisti di A bigger splash di Guadagnino, che aveva un impianto simile ma lo popolava di emozioni opposte: libere, sfrenate, collettive. Qui il privilegio è così dannatamente controllato e ragionevole, così privo di eccessi. Eppure lo sguardo di Woszczynska si mantiene severo, in una critica sociale forse un po’ didascalica che però non fa sconti allo spettatore.
È l’inquadratura a renderci tutti complici, assieme ad Adam e al suo senso di colpa artificiale, assieme al sottobosco meschino di poliziotti e lavoratori del turismo locale che trattano il corpo di Rahim come delle foglie cadute nella piscina. Il lavoro sulla posizione degli attori nella scena dice tutto ciò che c’è da dire su sentimenti che vanno dal desiderio all’imbarazzo, dal disagio fino all’angoscia. Piani fissi, sound design penetrante, una rigidità che ricorda Haneke: lo straniamento è la cifra principale dell’opera, che sa essere ora voyeuristica, per come scruta i personaggi, ora offuscante, nel modo in cui li separa da ciò che osservano.
È una storia polacca, attraverso i suoi protagonisti (Dobromir Dymecki e Agnieszka Zulewska, che erano anche nel decorato corto Fragments della regista)? O italiana, in quel territorio che dell’ingombrante presenza migrante è divenuto il triste simbolo? In realtà nessuna dei due, perché l’analisi del film si ferma a un livello precedente, di una realtà europea abbastanza intercambiabile. La specificità, sembra dire Woszczynska, non ci salverà perché in fondo siamo tutti meschini allo stesso modo.