L’insulto

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L’insulto

Beirut, oggi. Yasser è un profugo palestinese e un capocantiere scrupoloso, Toni un meccanico militante nella destra cristiana. Un tubo rotto, un battibecco e un insulto sproporzionato, pronunciato da Toni in un momento di rabbia, innescano una spirale di azioni e reazioni che si riflette sulle vite private di entrambi con conseguenze drammatiche, e si rivela tutt’altro che una questione privata.
In West Beirut, il film che ci ha fatto conoscere Ziad Doueiri, la guerra passava dall’apparire un’avventura personale al divenire una tragedia nazionale. Nella contemporaneità de L’Insulto la guerra civile libanese appartiene al passato, militarmente è finita nel 1990, ma basta una miccia piccola come una mezza grondaia che sgocciola per dare nuovamente fuoco alle polveri e trasformare un banale incidente in un processo mediaticamente incandescente, che spacca subito la nazione in due.

Douieri e Joelle Touma, sua compagna e cosceneggiatrice, sono partiti da un’occasione reale, un’uscita verbale infelice del regista in un momento di nervosismo, per andare all’origine del sentimento che sta sotto certe frasi, che non vengono mai pronunciate per caso.

Un’opera di immersione in profondità, dunque, tra lapsus e impulso, raccontata però in verticale, perché il conflitto, come la rabbia, come l’umiliazione, è qualcosa che monta. Raccontata in maniera diritta, appunto, attraverso tappe che si potrebbero dire prevedibili, eppure, non solo l’avverarsi del prevedibile è parte integrante del discorso, ma soprattutto è sfumato, colorato, drammatizzato da un ottimo copione, che si muove abilmente tra la sfera pubblica (e il film processuale) e il momento privato (dunque il dramma psicologico). Con il colpo di genio di fare dei due avvocati rivali un padre e una figlia, che non possono non portarsi in aula dell’altro: qualcosa che va al di là degli “atti”, esattamente come il confronto tra Toni e Yasser va al di là dell’insulto pronunciato sul momento e affonda in una sofferenza, privata e collettiva, che ancora tormenta e fomenta.

Se il film ha un limite, nel suo essere quasi didattico sull’argomento, in quel limite c’è anche la sua forza comunicativa e la sua principale ragione d’interesse, al di là della bella scrittura e delle prove attoriali di Adel Karam e Kamel El Basha. Perché parlare del peso simbolico delle parole e delle sue conseguenze reali, vuole anche dire parlare della responsabilità di chi si esprime attraverso un mezzo che è megafono e dunque del ruolo del regista. Doueiri porta davanti ad una corte di giustizia le due parti, perché giustizia dev’essere e non rimozione, ma non auspica né vittime né colpevoli, solo di affrontare fino in fondo le cose, per poter finalmente voltare pagina.

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