Con Fernanda Montenegro, Carol Duarte, Julia Stockler, Gregório Duvivier, Marcio Vito, Maria Manoella.
Titolo originale La vita invisibile di Eurídice Gusmão. Drammatico (colore). Durata 134 min. Brasile 2019 (Produzione: Canal Brasil, Pola Pandora Filmproduktions, RT Features, Sony Pictures Releasing Distribuzione: Officine UBU)
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Dopo una lunga serie di immagini fisse sulle quali sfilano i titoli di testa e che inquadrano una natura lussureggiante, dai colori vividi, ipnotici, il racconto prende inizio vicino al mare, tra gli scogli e i dirupi. Se quelle immagini sembrano richiamare una prossimità con la foto d’arte e le installazioni, l’estetica della sequenza che segue è più naturalistica, ma i colori, il verde soprattutto, restano di una certa intensità. Due ragazze di circa vent’anni sono inquadrate in un’atmosfera sospesa, vagamente inquieta, rafforzata da un commento musicale discreto ma persistente, che annuncia un possibile temporale, forse una tempesta. Una si alza, l’altra resta seduta, pensosa. Il vento muove le fronde degli alberi mentre vediamo una delle due ragazze inerpicarsi tra la vegetazione esotica e rigogliosa, avanzando tra cespugli e alberi dalle gigantesche radici ricoperte di muschio. Nel risalire si distanziano, poi si chiamano l’un l’altra. “Eurídice!”, dice una. “Guida! Aspettami!”, dice l’altra. La prima chiama ancora, senza l’altra sembra sentirsi come perduta in quel verde avvolgente. Quasi obnubilante.
Subito dopo questo lungo prologo, dissolvenza sul nero poi, accompagnata da una musica al pianoforte, l’immagine torna circondata sempre dal nero, come fosse un quadro. Oppure una foto proveniente da un passato recente. Immersa in una luce bianca, soffusa, vediamo una delle due giovani stagliarsi da una porta che quasi la incornicia insieme a una tenda – aperta a metà – di un azzurro turchese e semitrasparente che ondeggia al vento. Per un momento pare un’immagine fantasmatica, distante, lontana, forse perduta per sempre. Un’estetica espressione di una grazia oggi scomparsa.
Questo l’incipit, ammaliante, dello straordinario film brasiliano La vita invisibile di Eurídice Gusmão di Karim Aïnouz, adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice e giornalista brasiliana Martha Batalha che arriva ora nelle sale italiane dopo aver vinto il premio come miglior film nella sezione Un certain regard dell’ultimo Cannes. Senza contare la candidatura agli Oscar per il Brasile come miglior film straniero e l’esser stato designato come miglior film dal Sindacato nazionale dei critici italiani.
È la storia, incredibile, appassionante, nel Brasile degli anni cinquanta di due sorelle molto somiglianti e insieme molto diverse, in realtà legate tra loro come due vere gemelle malgrado abbiano una differenza di età di circa due anni (Eurídice ha 18 anni, Guida ne ha 20). Eurídice sogna di diventare una grande musicista. Guida sogna invece il grande amore, fuori dai canoni. Entrambe sognano di avere una vita felice seguendo i loro desideri, le loro aspirazioni. Entrambe sperano di rivoluzionare le convenzioni sociali dell’ambiente circostante che dietro l’estroversione, una certa follia apparente, nasconde le tradizioni oppressive di una società dominata dalla cultura patriarcale.
Aïnouz confonde e annulla i livelli tra narrazione intima e sociale, romanzo e melodramma, cinema d’impronta realista e cinema che trasfigura, tra sperimentazione e classicismo, tra telenovela e cinema d’autore. Tutto tiene in una sapiente alchimia di equilibri, fatta anche di tanti piccoli tocchi, come quelli di un pittore su un quadro. Del resto, quest’alchimia è altrettanto vera sul piano formale, sintomo di una perfetta unione tra la dimensione narrativa con quella visiva. Ma prima di approfondire quest’ultima, soffermiamoci su quella narrativa.
IL REGISTA RACCONTA UNA SCENA DI LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO
Se Guida sogna un amore di fantasia adolescenziale con il marinaio romantico che si rivelerà invece seduttore e manipolatore lasciandola, disillusa, a un futuro di povertà e ragazza madre, le due sorelle sono unite in maniera quasi simbiotica, al limite del rapporto amoroso, per quanto sempre platonico. Quando Guida parte incontro al suo destino, Eurídice si butta ad aspirare gli odori della sua biancheria intima. E per anni le lettere, che resteranno senza risposta, di Guida a Eurídice hanno un chiaro taglio amoroso, potenzialmente al limite del morboso ma prima di tutto piene di grande sentimento e delicatezza. Esprimono un costante anelito al momento in cui si ritroveranno e potranno vivere felici insieme. Per sempre. Quasi il desiderio di un’infanzia perenne. Del resto Eurídice cita non a caso il Peter Pan di Walt Disney, uscito in quegli anni.
Essere ragazza madre negli anni cinquanta non era uno scherzo, ancor più in Brasile. Cacciata dal padre, con una madre sottomessa al suo volere, Eurídice vivrà un’esistenza costantemente segnata dal fatto che i genitori le hanno fatto credere che la sorella fosse morta. Guida – che nel film qualcuno trova sia un nome difficile da ricordare o pronunciare forse perché ricorda il nome di Giuda, sinonimo di tradimento e disonore – sarà invece segnata dal costante interrogativo sul perché la sorella non risponda alle sue lettere. Non vogliamo rivelare molto di più. Crediamo sia chiaro che in un contesto sociale del genere se la donna è vittima di un uomo che la seduce, a farle poi pagare la propria ingenuità sia sempre un uomo. La cultura maschilista, qui uccide due volte, uccide sempre. In realtà uccide tutti, anche il padre.
Architetture oniriche
Tutto questo è avvolto in una dolcezza dall’onirismo persistente. I colori saturi ricercati dal regista che rievocano l’estetica ottimista delle cartoline degli anni cinquanta sono sempre modulati sapientemente con l’estetica dal registro più naturalistico. Quasi in ogni inquadratura i personaggi sono immersi, circondati, da muri, linee prospettiche, intersezioni divisorie, negli interni come negli esterni, che creano una grande vivacità visiva e una (ri)esplorazione degli ambienti, della loro veridicità e autenticità. Una sorta di mirabile unione formale che è l’opposto della vicenda delle due sorelle, due sorelle-specchio progressivamente sbriciolate, frantumate dal determinismo sociale. Ma queste linee divisorie sono avvolte in un onirismo costante che crea una sorta di stranissima psichedelia rétro, e non soltanto per il verde dominante, avvolgente. Non deve stupire: il regista è laureato in architettura, ha realizzato installazioni oltre che documentari, fiction televisive per la Hbo e diversi altri lungometraggi selezionati a Cannes, Berlino e per due volte a Venezia.
Euridice e Guida sono due ragazze che crescono nella stessa famiglia rigida e conservatrice. Quando Guida fugge una notte per incontrare il suo amante, Euridice acconsente di reggerle il gioco. Guida però non farà ritorno, sceglierà di sposarsi all’estero e la lontananza tra le due sorelle diventerà presto un abisso insuperabile quando il padre di entrambe deciderà di eliminare la peccatrice Guida dalla memoria della famiglia, impedendole di avere qualunque contatto con sua sorella.
“Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione” è il romanzo di Martha Batalha che il brasiliano Karin Aïnouz sceglie di portare sullo schermo, per due ore e venti che passano in un lampo, tante sono le emozioni che riesce a regalare.
Come e meglio del nostro L’amica geniale, il tentativo di portare al cinema una storia amata dai lettori di due donne complementari, unite e inseparabili è assolutamente riuscito. Il risultato è un’operazione che va ben oltre il letterario, diventa un film godibile a se stante, apprezzabile in primis per la scelta di raccontare la sorellanza in termini di amore smodato, ispirazione quotidiana, ricerca infinita in una Rio de Janeiro mai così piena di gente e di disperazione.
Cosa accade se fai l’errore di sposare l’uomo sbagliato e tuo padre ti impedisce di tornare a casa? Guida, un’eccezionale Julia Stockler, sconta sulla sua pelle il peso di questa risposta, finendo per fare ogni giorno i conti con la miseria e un bambino da crescere da sola. Diverso il destino di Euridice, Carol Duarte in stato di grazia, perfetta in ogni singola inquadratura: lei segue, obbediente, ciò che il padre ha scelto per lei. Un marito, tanto per iniziare, incapace di trattarla con rispetto persino la prima notte di nozze, ma fedele all’ideologia fallocentrica dell’uomo padrone sposata da suo padre.
Euridice non è messa mai nella condizione di poter scegliere, in tutta la sua vita. Una famiglia rispettabile, abiti decorosi, ristoranti chic e una bella casa al prezzo di una libertà personale continuamente umiliata. L’unica cosa che sogna è diventare una grande pianista, ma anche una legittima ambizione viene mal sopportata in un contesto repressivo dove la donna deve limitarsi ad essere madre e moglie obbediente e silenziosa. Ed Euridice obbedisce, sempre e comunque, ma non rinuncerà mai a cercare in ogni modo sua sorella, che intanto vive tra gli ultimi, solo per una piccola ribellione adolescenziale.