Con Clare Dunne, Harriet Walter, Conleth Hill, Ericka Roe, Cathy Belton, Rebecca O'Mara, Ian Lloyd Anderson, Molly McCann.
Titolo originale HERSELF. Drammatico, (colore). Durata 97 min. Francia 2020 (Bim Distribuzione)
Sandra se ne va di casa, con le sue due bambine, il giorno che suo marito scopre che stava mettendo da parte dei soldi per farlo. Quel giorno lui la prende a calci e pugni, le tira i capelli, la butta a terra e le rompe una mano. Dopodiché, l’uomo continua a vedere le figlie nei weekend, ma Sandra è una donna intelligente e, anche se lui la incalza, si tiene alla larga. Poi, un giorno, tra un lavoro di fatica e un altro, mentre cerca un alloggio che non trova, Sandra vede il video di un uomo che si è costruito una casa da solo, ad un costo molto contenuto, e comincia a pensare di fare lo stesso.
La prima versione della sceneggiatura, quella che ha suscitato l’interesse e attivato la produzione del film, l’ha scritta Clare Dunne, l’interprete di Sandra, e non c’è dubbio che il suo coinvolgimento sia palpabile e il suo personaggio verosimile, forse proprio perché lontano dallo stereotipo della vittima di violenza, intrappolata in un legame che non riesce a spezzare.
Sandra si mette in tasca l’amore e la nostalgia, nel senso che se li porta appresso, ma non apre più quella tasca, non spera di cambiare il suo uomo e non è disposta a correre nessun altro rischio. Naturalmente la tensione è sempre alta, il pericolo sempre in agguato, perché non ci si libera facilmente da chi pretende di possedere un’altra persona, ma Herself punta tutto sul concetto di costruzione, incidenti di percorso compresi, anziché sulla cronaca di una demolizione. La casa è allora l’immagine al contempo più concreta e più metaforica dell’impresa di ricostruzione di una vita: dalla necessaria solidità delle fondamenta, al fatto che richiede un lavoro di squadra, alla destinazione finale, che porta con sé l’idea di famiglia e l’impegno a proteggere tale idea.
Se all’inizio il contesto sembra strappato al meraviglioso Wasp di Andrea Arnold, anche per il contributo espressivo importante delle bambine in scena, diventa chiaro progressivamente che, con questo film, Phyllida Lloyd vuole raccontare un altro personaggio femminile forte, un terzo aggregatore di forze, sarebbe più corretto dire, e lanciare un appello sull’importanza di fare comunità, e di prestare la propria opera, a questo fine, senza per forza avere qualcosa in cambio.
Piccolo, nella misura produttiva, perché senza star di richiamo, ma anche nella presentazione, che non scomoda uno stile particolare né una narrazione particolarmente articolata, Herself dimostra che questo tipo di cinema può farsi portatore di temi molto grandi, evitando il rischio di perdere il contatto con l’esperienza comune, e restituendo un mondo a misura di quartiere.
Sicuramente si può obiettare che molto del dramma e del logorio nervoso che si associa alla violenza domestica e alla fatica di una donna sola e non economicamente indipendente resta fuori dallo schermo, ma l’impressione è che dietro questa scelta ci sia ancora una volta la decisione di non ribadire quanto tristemente noto, in favore di un approccio che motiva personaggi e pubblico a sondare l’insolito. Perché possibile, e non soltanto in un film.