Con Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Cesare S. Cremonini, Massimo Bonetti, Lino Capolicchio, Chiara Caselli, Gianni Cavina, Alessandro Haber, Andrea Roncato.
Titolo originale Il Signor Diavolo. Drammatico (colore). Durata 86 min. italia 2019 (Produzione: Duea Film, Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution)
Con un travagliato iter distributivo alle spalle, dopo esser stato rifiutato da 6 case di distribuzione, arriva finalmente in sala “Il Signor Diavolo”, ultima fatica di Pupi Avati. Il film è la trasposizione dell’omonimo romanzo scritto dal regista stesso. Forse anche per questo è impossibile non notare immediatamente l’amore che c’è alla base di quest’opera. “Il cinema italiano sta vivendo un momento di profonda crisi, si producono solo commedie, sempre i soliti attori, con risultati francamente modesti” dichiara il regista – lasciando trapelare una certa delusione – che si sta prodigando in un tour promozionale in giro per la “sua” terra, l’Emilia-Romagna.
Con “Il Signor Diavolo” Pupi Avati torna al genere che più ha caratterizzato i suoi esordi cinematografici (e del quale è creatore), il “gotico padano” o “gotico rurale”. Un racconto dagli echi antichi, che porta gli spettatori più giovani dentro un mondo affascinante, cupo e – probabilmente – sconosciuto.
Il film si apre con l’efferato omicidio di un neonato sbranato vivo da quello che scopriremo poi essere suo fratello, Emilio. Il giovane – presunto – cannibale verrà a sua volta ucciso anni dopo da un bambino del paese, Carlo. La sua colpa? Essere deforme e quindi adepto del diavolo, oltre che frutto del rapporto tra una donna e un verro. È il 1952 e al governo c’è il presidente De Gasperi. Essendo coinvolti con l’omicidio una suora e un sacrestano, rei di aver fomentato il giovane con idee superstiziose, il governo di Democrazia Cristiana è costretto ad intervenire. Verrà quindi mandato a far luce sul fatto Furio Momenté, un giovane – e inetto – funzionario statale.
Durante la prima metà del film ci verrà raccontato in flashback l’accaduto, attraverso gli occhi di Furio che, durante il viaggio legge le deposizioni lasciate dai testimoni fino a quel momento. Seguendo una struttura narrativa a scatole cinesi, che può ricordare “Le strelle nel fosso”, pellicola datata 1979 scritta e diretta sempre da Avati, si segue il giovane funzionario statale in questo viaggio verso un mondo altro. Ci si trova nuovamente di fronte ad uno dei classici temi avatiani, quello dell’inetto incapace di comprendere ciò che lo circonda, scivolando sempre più dentro un incubo dal quale sembra impossibile uscire, tra stregoneria, sangue e folklore.
Ciò che va riconosciuto a Pupi Avati è il merito di esser riuscito a ricreare un’atmosfera che oramai si credeva perduta nei meandri del nostro cinema e di averla resa credibile. Con la sua fotografia seppia (l’idea originale del regista era quello di girare il film in bianco e nero, ma è stata presto abbandonata per limiti di produzione, peccato) e le evocative location, il film riesce, senza tanti problemi a portare lo spettatore dentro un mondo dominato da superstizione e folklore.
Più volte ci si ritrova a distogliere lo sguardo, anche grazie agli effetti ancora eccezionali di Sergio Stivaletti (storico collaboratore di quei registi di genere che tanto hanno fatto parlar di loro tra gli anni ’70 e ’80). Siamo tra “La casa dalle finestre che ridono”, scritto e diretto nel ’76 da Avati, e “Il Demonio” di Brunello Rondi, a differenza di questi, però, ne “Il Signor Diavolo” si aggiunge un senso di decadimento ancor più forte.
È palpabile la necessità del regista di raccontare il suo passato, “tra vecchi e bambini si crea un legame incomprensibile” nel Q&A che ha seguito la proiezione. Tra atmosfere oscure e violenti omicidi, infatti, emerge prepotente un sentimento di nostalgia, le prime amicizie che nascono tra le stradine del paese, la scoperta del corpo femminile, tutto sembra filtrato da uno sguardo malinconico. “Se mi fai vedere il seno ti porto un coniglio”, dirà il piccolo Carlo alla ragazza che è solito spiare con il suo amico, in una delle scene più emblematiche dell’intera pellicola.
Perché il film parla di questo, dell’infanzia come momento magico che andrà inevitabilmente perduto ma che – forse – resterà sempre nascosto lì, in un angolino, pronto ad uscire e ricordarci che, probabilmente, abbiamo ancora paura del buio, nonostante tutto. E allora si può passar anche sopra alla recitazione non sempre convincente, ad una sceneggiatura che più volte scricchiola, perché, proprio come nell’infanzia, non tutto ha senso, ma, se ci si lascia trasportare, tutto è magico, anche l’orrore.
La frase dal film:
“Le cose che ci sono nemiche, sono quelle che vanno trattate meglio.”