Con Cristiano De André, Dori Ghezzi.
Titolo originale . Documentario (colore). Durata 94 min. Italia 2021 (Nexo Digital)
DEANDRÉ#DEANDRÉ- STORIA DI UN IMPIEGATO
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Jacques Lacan, psicanalista e filosofo francese, riteneva che le contestazioni giovanili del ’68 avessero demolito l’autorità simbolica del padre nella vita della famiglia e in quella della società.
La sua previsione era che il vuoto lasciato dal padre venisse colmato dal carattere feticistico delle merci, dall’oggetto di consumo.
La previsione era corretta ma in quel Maggio, Fabrizio De André resiste come un’anomalia, come l’eccezione che fu: un padre-testimone che irriga oggi nuovi narrazioni.
De André#De André. Storia di un impiegato è una di quelle narrazioni. È la storia di un disco che si fa spettacolo teatrale e poi cinema.
È la storia di un figlio che interroga il padre e il suo patrimonio rintracciando la loro intimità, i loro fantasmi, i loro ricordi.
Nel 1973 le Brigate Rosse rapiscono Ettore Amerio, capo del personale FIAT, Enrico Berlinguer propone una stretta di mano e il ‘compromesso storico’ alla Democrazia Cristiana e Fabrizio De André scrive “Storia di un impiegato”, un concept album sulla vita di un piccolo borghese che sogna di fare la rivoluzione a colpi di bombe, sfuggendo alla noia di una vita già tracciata.
Il disco, scritto con Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio, racconta la progressiva presa di coscienza di sé, dell’altro e del bisogno di una lotta comune.
Roberta Lena, già regista della versione teatrale, segue il filo narrativo delle canzoni dell’album che Cristiano De André interpreta sul palcoscenico, ri-arrangiando note che trovano ancora eco nel presente.
È la storia di un impiegato, certo, ma quella del film è anche un’indagine sensibile su Cristiano, figlio ‘maggiore’ di Fabrizio De André.
È lui a portare la fiamma del padre, a offrire al pubblico un film d’amore senza trucchi, un monologo interiore, col suo fervore, le sue ferite, le sue confidenze, i suoi tentatavi di risalire la superficie da un mare blu e profondo.
Segreto e limpido, trattenuto e aperto, a immagine del documentario, Cristiano De André ha bisogno di un altro testa a testa col genitore, quasi volesse fargli intendere, ovunque lui sia, l’importanza che ha avuto per lui. E c’è ancora tanto amore da spendere per quel padre, c’è un tale spazio di sacralità intorno a Fabrizio, a cui Cristiano custodisce intatto il ‘tempio’ (Pausania).
Solo le piastrelle rosse sono state sostituite perché non ci fosse altro che la malinconia a ‘tormentare’ Cristiano. La leggerezza del bianco succede all’audacia del rosso, in uno spazio familiare che lo ha visto crescere tra il genio rabelesiano di Marco Ferreri e l’antieroe di Paolo Villaggio, un altro impiegato leggendario che metteva in causticità rustica quello che Faber metteva in versi ‘acustici’.
A colpi di accordi fustigava una società incapace di pronunciarsi sull’avvenire, aggrappata alla televisione, smantellata dalla corruzione politica. Ma oggi come allora, il sogno musicale è ancora possibile.
Sgranando le canzoni come le «notti di Genova», Cristiano si arrende e fa quello che sa fare meglio, anche meglio del padre, suonare, riaccendendo le parole di ieri e le ballate che amiamo riprendere in cerchio, un cerchio militante.
Perché i testi di Fabrizio De André, che condividono tutti lo stesso gusto per la frase costruita, la metafora, la satira e la ritmica della chitarra, hanno rotto gli schemi classici della canzone italiana e hanno spostato le “nuvole” più in là.