Con Joaquin Phoenix, Ekaterina Samsonov, Alessandro Nivola, Alex Manette, John Doman, Judith Roberts, Madison Arnold, Jason Babinsky.
Titolo originale You Were Never Really Here. Drammatico (colore). Durata 95 min. Usa, francia 2017 (Film4, Why Not Productions - Distribuzione: Europictures)
A Beautiful Day
Joe è un veterano di guerra, sopravvissuto anche a molte altre battaglie. A casa lo aspetta solo la madre anziana a malata, con cui ha un rapporto di grande affetto e pazienza. In una New York desolata e piena di segreti, il cui profilo nobile resta sempre in lontananza, Joe fa il mercenario per chi vuole liberarsi di nemici pericolosi ma non ne ha l’abilità o il coraggio. Il suo ultimo incarico è quello di sottrarre Nina, la figlia preadolescente di un politico locale, ad un giro di prostituzione minorile: una creatura abusata e offesa che fa da specchio al passato dell’uomo. Joe appare e scompare, spesso armato di un martello, come se non fosse mai stato lì (questa la traduzione del titolo originale), menando fendenti e scacciando con la stessa allucinata intensità i ricordi devastanti, tanto della propria infanzia in balia di un padre sadico, quanto dei crimini di guerra compiuti (anche da lui) dietro la giustificazione di una divisa. Quello di Joe è un universo di bambini perduti cresciuti alla mercè degli orchi e spesso diventati come loro, un mondo in cui l’uomo si muove come un giustiziere, cercando di rattoppare la sua vita ridotta ad un puzzle di sensazioni e (brutti) ricordi.
Lynne Ramsey, regista scozzese di grandissimo temperamento, parla spesso di infanzia abusata: lo faceva in Ratcatcher come nel bellissimo e inquietante …E ora parliamo di Kevin, entrambi in mostra a Cannes, dove Ramsey è stata anche giurata.
Il suo cinema affronta di petto ciò di cui dobbiamo parlare (per parafrasare uno dei suoi titoli) senza permetterci di chiudere gli occhi davanti a ciò che è profondamente perturbante. La trama di You Were Never Really Here non è particolarmente originale, richiama quella di Leon, Drive e almeno un’altra decina di film con protagonista un vendicatore a difesa (e alla ricerca) dell’innocenza perduta.
Ma è il modo in cui Ramsey racconta quella storia a fare tutta la differenza. La regista, che ha un passato di operatrice, sa sempre dove mettere la cinepresa, e non è mai dove te l’aspetti, o dove il cinema che l’ha preceduta l’ha messa in passato. Con un’attenzione spasmodica al dettaglio, Ramsey si butta nella narrazione visiva entrando dentro la materia delle cose e permeando la psicologia disturbata dei suoi personaggi. Le sue immagini, grazie anche alla splendida fotografia di Thomas Townend, sono di una potenza inedita e devastante, ma anche puro piacere dell’immagine, senza per questo diventare mai sterilmente estetizzanti. La violenza brutale che raffigura è tanto fisica (avviso ai naviganti: c’è più splatter qui che in Nicholas Winding Refn, Quentin Tarantino e Lars Von Trier) quanto mentale, nell’evocazione tattile delle sensazioni di terrore di un bambino che fa il conto alla rovescia di quanto può resistere, prima di morire soffocato.