Con Jeremy Irons, Dev Patel, Malcolm Sinclair, Toby Jones, Stephen Fry, Dhritiman Chatterjee, Raghuvir Joshi, Arundathi Nag, Devika Bhise, Padraic Delaney.
Titolo originale L'uomo che vide l'infinito. Drammatico (colore). Durata 108 min. Regno Unito 2015 (Eagle Pictures)
Ancor più di un pittore, di uno sculture, di un poeta o di un drammaturgo, un matematico può diventare, in un film che ne celebri le scoperte, figura magica, mitica, pura incarnazione del genio, o più semplicemente di un sapere che arriva, se non direttamente da Dio, da forze oscure e misteriose. Ecco perché il pubblico ha amato così intensamente il John Nash di A Beautiful Mind, l’Alan Turing di The Imitation Game e lo Stephen Hawking a cui James Marsh ha dedicato La teoria del tutto. Ognuno di questi tre biopic, oltretutto, conteneva, accanto a formule e rivoluzionarie teorie, un dramma personale e una relazione più o meno sentimentale che rendevano rotondo il personaggio principale e accorciavano le distanze fra la sua mente superiore e il cervello normale dell’uomo medio.
Sulla carta, la vicenda di Srinivasa Ramanujan – che veniva da un’umile famiglia di Madras – non aveva neppure bisogno di questi elementi aggiuntivi, perché il ragazzo del Tamil Nadu possedeva qualcosa in più rispetto ai suoi illustri colleghi occidentali dalla pelle bianca: la povertà, un destino infausto, un matrimonio segnato dalla lontananza e un intuito a dir poco straordinario. La sua epopea andava dunque narrata ad ogni costo, anche a rischio di non elevarsi al di sopra della classica biografia cinematografica precisa e puntuale ma in fondo priva di particolare afflato. Effettivamente, è soprattutto la straordinarietà del vissuto che ricostruisce il motore che muove L’uomo che vide l’infinito, l’energia che lo alimenta e che ne fa una storia di sacrificio da cui prendere esempio: l’esempio di un ragazzo non aduso ai costumi europei che antepose il suo matrimonio e la sua salute allo studio delle partizioni.
Con un inizio un po’ alla Merchant-Ivory che indugia sulla vita pre-Cambridge diRamanujan per spiegare lo spaesamento che successivamente lo coglie, il film di Matt Brown è ineccepibile della descrizione delle difficoltà di integrazione del giovane, dello snobismo degli accademici più paludati e della xenofobia di molti studenti che vedevano il nuovo compagno di corso come una “curiosità esotica”. Ognuno di questi aspetti, però, non è indagato in profondità, e in più il regista non vuole rendere l’orgoglioso Mozart dei numeri primi troppo immodesto, i neo-soldati inglesi eccessivamente razzisti, la malattia di Srinivasa troppo indigeribile. Forse per amore di fedeltà alla storia (e al libro biografico di Robert Kanigel), o per una pruderie tipicamente britannica, L’uomo che vide l’infinitosembra insomma prediligere un approccio corretto alla materia di cui tratta e per un bel po’ si mantiene a metà strada fra la spiegazione del lavoro dello studioso indiano e il ritratto dell’amicizia fra quest’ultimo e il professor G.H. Hardy, che intuì la sua genialità, provò ad addomesticare il suo sapere “selvaggio” e si batté affinché diventasse un membro della Royal Society e del Trinity College. Per fortuna a un certo punto il film sceglie di percorrere soprattutto la seconda strada e, stemperando la sua ingenuità, risorge, anche perché una partita giocata fra Dev Patel e Jeremy Irons difficilmente non può essere una scommessa vinta.
Per quanto fisicamente diverso dal personaggio, l’attore divenuto una star conThe Millionaire è infatti sempre a fuoco e nella spigolosità dei suoi tratti esprime benissimo il carattere ostico di Ramanujan, devoto alla matematica, severo con se stesso come un monaco e facile preda di una febbrile estasi creativa. L’eccentrico professore di Irons ne smussa il rigore con un’ironia compassata e un’eleganza fisica e intellettuale che sono poi tratti costituitivi di un attore che da decenni veneriamo. Il rapporto fra i due personaggi, che trascolora in un’amicizia che passa per la vulnerabilità del maturo matematico, è interessante, perché riproduce la sempiterna dialettica fra fede e scienza, fra dogma e conoscenza empirica.
E poi L’uomo che vide l’infinito illustra bene la vita e i rituali universitari, divertendosi quasi a evidenziare l’arguzia di un Bertrad Russell, affettuosamente soprannominato Bertie, e l’intelligente dolcezza di John Littlewood. E’ un mondo che Brown conosce bene e che filma in maniera raffinata ed impeccabile, perché questo suo secondo lungometraggio che ha un po’ l’aria del compitino, è comunque un prodotto ottimamente confezionato, che se non altro riporta alla memoria e riabilita un grandissimo ingegno ingiustamente punito dalla vita.